Tavola rotonda in occasione dell’assemblea di ECCOMI del 28 maggio 2011
Amatevi gli uni con gli altri come io ho amato voi
Gli interrogativi che seguono si pongono – ovviamente – sia per i comportamenti individuali, che per i comportamenti sociali, economici, politici.
Nei tempi passati gli uomini erano abbastanza convinti che non tutte le persone fossero uguali – si pensi alla schiavitù, all’inferiorità della donna priva di anima, alla democrazia limitata ad alcune classi sociali e ai soli uomini, alle tragiche forme di colonialismo e di razzismo, ecc.-
Era quindi normale che non tutti avessero il diritto di essere rispettati, né il dovere di rispettare.
La storia e il cammino dell’uomo ci hanno progressivamente fatto scoprire una diversa e ben più ricca verità, verità oggi sancita, ma forse ancora concettualmente e formalmente perfettibile, nella Carta dei diritti dell’uomo.
E’ questo il principio civile su cui si fonda la solidarietà e la cooperazione internazionale.
Ma come può il volontario, per quanto bene motivato, rispettare cultura costumi, abitudini, povertà, persone in cui e con cui va ad operare prescindendo dal potere (culturale, economico, professionale, simbolico, ecc.) di cui è dotato?
Come può evitare di servirsi di un tale potere senza mancare di rispetto per l’altro?
Intervento di Francesco De Falchi
Vicepresidente di ECCOMI onlus
Per evitare divagazioni a cui sono facilmente portato preferisco leggere quanto ho scritto per avviare questo confronto, confronto che vuole aiutare ECCOMI a poter dire all’altro ancora 10.000 volte “eccomi”.
Poche parole per indicare i confini entro i quali cercare di mantenere la nostra attenzione e riflessione. Il tema infatti potrebbe riguardare molti aspetti che oggi ci coinvolgono.
Si potrebbe per esempio pensare alle molte e varie situazioni di violenza e di ingiustizia evidenti nell’attuale fase storica in cui il potere della grande finanza non rispetta certo le molte popolazioni povere dei vari continenti.
Si potrebbe anche pensare ai rapporti familiari in cui il potere dell’adulto non sempre rispetta le esigenze e le sofferenze dei minori, dei figli.
Si potrebbe forse riflettere sul potere che viene attribuito democraticamente ai governanti ed ai gestori della politica che, tradendo i principi più veri della democrazia, non rispettano i cittadini. E così via…
Vorremmo però che la nostra riflessione di oggi si rivolgesse più semplicemente al nostro potere, al potere di cui ciascuno di noi è comunque dotato, ma di cui non sempre è consapevole, nel momento in cui entra in rapporto con gli abitanti del posto dove, volontario con le migliori motivazioni ed intenzioni, arriva per cooperare con azioni e progetti finalizzati a migliorare le condizioni di vita locali.
(A questo proposito c’è chi parla di sindrome di onnipotenza che colpisce l’ inconsapevole volontario)
Nella mia esperienza africana mi sono accorto infatti del potere che mi era attribuito dalle persone locali, potere certamente economico, ma anche culturale per le conoscenze e le informazioni di cui disponevo, potere simbolico per ciò che loro sapevano della civiltà che rappresentavo.
Mi sono reso conto che questo potere rischiava di condizionare la possibilità di un autentico rapporto di collaborazione, un rapporto cioè paritetico tra persone e realtà diverse ma con uguali diritti e uguali responsabilità e che poteva tradursi in una sostanziale mancanza di rispetto per l’ altro con atteggiamenti e comportamenti paternalistici o assistenziali e di fatto autoritari…….e del resto non mi sono mancati esempi di comportamenti arroganti e violenti da parte di altri volontari….
Ma, ancora più grave, questo potere poteva facilmente indurre l’ altro a delegare totalmente la responsabilità dei risultati del progetto al detentore del potere. Ciò poteva vanificare il perseguimento dell’ obiettivo primario di un qualsiasi progetto di cooperazione allo sviluppo, ossia l’acquisizione da parte dei locali di competenze e di responsabilità che possono condurre all’ autosviluppo.
E’ mia personale convinzione che una delle cause della scarsa efficacia degli interventi per ridurre il divario tra i nord e i sud del mondo è la forza del potere dei nord del mondo che non rispettano i sud del mondo, ma sono altrettanto convinto che sia nostro dovere e responsabilità testimoniare una diversa modalità di cooperare e di praticare la solidarietà, modalità che dovrebbe permettere di condividere con i partner locali, in un rapporto veramente paritetico, le responsabilità di un progetto per dare vita insieme a nuove fasi di progresso civile. Da qui alcuni interrogativi che pongo innanzitutto agli esperti presenti, ma anche a tutti i presenti:
- Come può il volontario, per quanto ben motivato, riuscire a prescindere dal potere (culturale, economico, professionale, simbolico, ecc.) di cui è dotato, seppure non sempre e totalmente consapevole?
- Come può essere certo di rispettare cultura, costumi, abitudini, povertà, persone, in cui e con cui va ad operare?
- Come può evitare che questo potere possa tradursi in mancanza di rispetto per l’altro?
- Come acquisire consapevolezza del nostro potere e della responsabilità morale che ne deriva ?
- Quali comportamenti -ed in base a quali principi- dovrebbe assumere nel caso in cui i comportamenti degli interlocutori locali mettono a rischio il raggiungimento degli obiettivi del progetto?
- Come essere certi che questi obiettivi sono più importanti delle persone?
Intervento di Fabrizio Cavalletti
Resp. ufficio Africa e ufficio Asia/Oceania di Caritas Italiana
Il tema della “forza del potere e del rispetto per l’altro” non è importante solo in riferimento alla relazione interpersonale tra volontari stranieri e personale locale, ma rappresenta il nodo di fondo che ha caratterizzato e caratterizza le politiche dei governi dei paesi considerati “sviluppati” verso quelli ritenuti “sotto-sviluppati” o “in via di sviluppo”. Innanzitutto questa classificazione è viziata da una visione del mondo in cui il modello di sviluppo occidentale, ormai adottato da molti altri paesi del Sud e dell’Est (Cina, India, Corea del Sud, Sud Africa… ecc), è assunto a modello universale a cui tutti debbono tendere. E’ in base a questa rispondenza che viene messa l’etichetta di paesi sviluppati, sotto-sviluppati, in via di sviluppo. Questo approccio, cardine delle politiche di cooperazione e spesso di solidarietà, oltre ad essere un paradosso, in quanto il nostro modello di sviluppo è profondamente insostenibile (se tutto il mondo consumasse come noi non basterebbe l’energia, la terra, l’acqua, lo spazio per smaltire i rifiuti, l’aria per smaltire l’inquinamento ecc.), ha prodotto l’impoverimento di molte popolazioni non solo dal punto di vista economico, ma anche culturale generando complessi di inferiorità, tendenza alla delega nei confronti dello straniero “bianco e ricco” o al contrario un suo totale antagonismo. Nella relazione Nord – Sud si è radicata una mentalità verticale Maggiore – minore (M-m) che unitamente alle malefatte di elite politiche e gruppi di potere locali, ha provocato un danno importante nella fiducia delle comunità di base nelle proprie potenzialità e risorse, nei legami comunitari e sociali, nella speranza del cambiamento.
Allora venendo ai quesiti posti, cosa fare per non cadere in questa logica.
Innanzitutto nella relazione è importante la consapevolezza di questo potere, di questa asimmetria di partenza che inevitabilmente c’è e che rischia realmente di viziare la relazione se non tenuta in considerazione.
In secondo luogo il tema della cultura. Il rispetto della cultura altrui non va confuso con il solo, seppur dovuto, rispetto degli usi e costumi locali. E’ qualcosa in più che presuppone innanzitutto la conoscenza e la consapevolezza della propria identità culturale frutto della storia di ciascuno (educazione, ambiente esperienze ecc.). Tutti noi guardiamo, interpretiamo e giudichiamo l’altro con degli occhiali che filtrano la realtà in base alla nostra identità culturale, filtro che inevitabilmente deforma la visione oggettiva di ciò che ci circonda. Occorre consapevolezza che gli occhiali cambiano da persona a persona e ancor più tra popoli di tradizioni e culture differenti. Ciò deve indurci ad uno sforzo di sospensione del giudizio di una determinata situazione, distinguendo ciò che è oggettivo da ciò che sono valutazioni, giudizi inevitabilmente suscitati dalle nostre lenti interpretative. Per fare questo occorre una formazione che ci aiuti innanzitutto a svestirci dei nostri occhiali “deformanti” per provare a indossar quelli degli altri e aiutare gli altri a fare lo stesso.
In terzo luogo, la disponibilità all’ascolto e all’osservazione riconoscendo alla parola e ai gesti dell’altro la capacità di comunicare ciò che ritiene importante per la propria vita. Purtroppo questo non è un concetto scontato, talvolta si ha la tendenza a ritenere le persone non in grado di valutare ciò di cui hanno bisogno e quindi a non dare troppo peso a richieste che “apparentemente” non corrispondono alle reali esigenze oppure a costruire i progetti sulla base di considerazioni e ragionamenti differenti dall’ascolto delle comunità locali.
In quarto luogo, la corretta definizione del compito affidato ai volontari e alle organizzazioni straniere. Un compito non tanto orientato al fare o al progettare bensì al facilitare il fare e il progettare delle comunità locali. Si tratta di una relazione che dovrebbe accompagnare le comunità locali all’auto–promozione, alla individuazione dei propri obiettivi di cambiamento e delle conseguenti azioni/processi necessari per perseguirli facendo leva il più possibile sulle proprie risorse e potenzialità e in via sussidiaria a quelle esterne. Il passaggio chiave è proprio la definizione degli obiettivi di cambiamento, questo è il momento cruciale per il quale è fondamentale vi sia il protagonismo delle comunità locali e un ruolo di facilitazione e accompagnamento degli esterni. Questo implica alcune condizioni di lavoro indispensabili:
- flessibilità nei tempi;
- un approccio che cerca il meno possibile di suggerire risposte ma piuttosto che pone interrogativi per suscitare l’elaborazione di proposte da parte delle comunità locali;
- la libertà di azione (qui c’è tutto il problema dei vincoli posti dagli offerenti istituzionali e non) per accogliere anche proposte inattese;
- l’umiltà di considerare il proprio contributo come parte di una storia molto più lunga, un pezzetto di strada fatto insieme in cui vi è realmente uno scambio e non un dare a senso unico, dai poveri si impara molto di più di quanto si insegni loro.
- dedicare il giusto tempo alla costruzione della relazione e della fiducia reciproca.
In ultimo credo che il tema del rispetto dell’altro implichi la necessità di cogliere l’importanza di assumere piena coscienza dell’ingiustizia globale su cui si fonda l’impoverimento della gran parte della popolazione del mondo e la necessità che la loro promozione parta da una seria revisione degli stili di vita e del modello di sviluppo dei popoli “ricchi”. Se vogliamo accrescere la qualità della vita di chi sta peggio è necessario partire dal cambiare noi, dal ridurre un po’ il nostro benessere, altrimenti si cade nel paradosso di cui parlavo all’inizio. Contro la fame cambia la vita, questo lo slogan di una campagna per la lotta alla fame del mondo lanciata dalla Caritas nel1992, misembra uno slogan quanto mai attuale che chiede a chi sta meglio di assumere la responsabilità non solo per un aiuto diretto ma anche per un impegno indiretto che pone il riscatto degli impoveriti al centro delle azioni quotidiane di consumo, di risparmio, di impegno politico ecc. D’altro canto è anche quanto il Papa Benedetto XVI ha esortato nella sua ultima enciclica Caritas in veritate.
Intervento di Padre Francesco Compagnoni
Docente universitario nella Pontificia Università San Tommaso
Presidente di ADJUVANTES ONLUS
Perché sono crudele con gli studenti africani.
La mia esperienza nell’aiuto allo sviluppo dei Paesi svantaggiati è molto ridotta ma specifica.
Io insegno da decenni teologia morale nella Facoltà di Teologia della Pontificia Università S. Tommaso di Roma (Angelicum) dove studiano studenti e studentesse provenienti da quasi 100 Paesi. Ma è solo dal 1994 che il problema dell’aiuto concreto mi si è posto personalmente. Essendo io da sempre interessato ai problemi sociali, in una situazione di crisi istituzionale, fui nominato preside della Facoltà di Scienze Sociali con il compito di rilanciarla.
In questa Facoltà vi erano allora molti studenti e studentesse africane ed io mi trovai ad affrontare, tra molti altri, anche il problema di come aiutarli a sopravvivere durante gli studi. I ragazzi facevano di tutto: badanti, sorveglianti di mostre, raccoglitori stagionali di frutta. Quello che mi colpì maggiormente fu il loro sradicamento dalla cultura di provenienza e il non inserimento nella nostra. Sentii una profonda compassione (“soffrire con”, letteralmente) per la loro situazione e nel contempo mi posi, insieme al altri colleghi, il problema di come aiutarli realisticamente. Come Facoltà non potevo fare molto sia per motivi istituzionali che economici. Cominciai allora ad insegnare in una Università che mi pagava – dalla mia Università (essendo io religioso) non ricevo uno stipendio – ed a distribuire lo stipendio a pioggia. Successivamente (nel 2000) si pose la necessità si regolarizzare questa situazione e fu così che fondai Adjuvantes Onlus, Fondo di solidarietà educativa – insieme a Sr. Helen Alford, un’aziendalista proveniente dalla Università di Cambridge.(https://sites.google.com/site/adjuvantesonlus/). Sviluppammo un programma di studi all’estero per studenti statunitensi e con i proventi potemmo finanziare delle vere borse di studio. Successivamentela Conferenza Episcopale Italiana ci concesse in gestione una decina di borse di studio fondate in occasione della Giornata Mondiale della Gioventù di Roma e, dopo ancora, trovammo una fondazione internazionale che assegna aiuti per la formazione culturale di una Leadership cristiana nei Paesi più poveri. Affittammo anche una serie di appartamenti come residenza dei nostri borsisti.
Durante i primi anni di Adjuvantesla mia Comunità MASCIRM8 miha aiutato organizzando diversi mercatini, mentre il MASCI Nazionale mi fornì involontariamente un’esperienza interessante. Il presidente di allora, Claudio Gentili, ci permise di inserire in un numero di Strade Aperte un dépliant sul nostro lavoro: 5000 copie. Chiedevamo evidentemente un contributo ed anche l’offerta di qualche lavoro, magari estivo, per i ragazzi. Ci furono due sole risposte: un’offerta di lavoro ed una lettera di improperi contro gli studenti che venivano in Italia senza mezzi.
Questo ci fece riflettere sul fatto che chiedere aiuti per formare laureati per il terzo mondo non era molto popolare ! Con tutti i bambini da adottare a distanza, questi ragazzoni e ragazzone che studiavano non suscitavano evidentemente nessuna solidarietà, nessuna ‘compassione’.
Il problema fondamentale che si poneva alla ONLUS era comunque il modo di aiutare gli studenti. Lentamente sviluppammo una nostra filosofia che dipendeva, è chiaro, dal fatto che i dirigenti di Adjuvantes sono anche docenti di una Facoltà di Scienze Sociali. Noi non possiamo aiutare seriamente qualsiasi ragazzo o ragazza che vuole scappare dall’Africa. Ci concentriamo sulla formazione di futuri leaders che sapranno aiutare la loro gente sulla via dello sviluppo.
Per fare questo bisognava partire dal fatto che maggioranza dei paesi d’Africa l’educazione secondaria è un disastro (come i sistemi sanitari, d’altronde) e che quindi i ragazzi arrivano in Europa impreparati ad entrare in un corso universitario. Molti di loro non hanno mai posseduto nella loro intera carriera scolastica un libro ! Abbiamo allora istituito dei corsi preparatori per loro, nelle lingue che conoscevano, di solito inglese o francese. Abbiamo dato indicazione ai docenti di come aiutarli nei primi semestri ed introdotto corsi di metodologia per aiutarli in parallelo allo studio curricolare.
Ma il problema principale è stato quello di aiutarli a crescere interiormente, ad appropriarsi della loro missione futura, della necessità di abbandonare la mentalità di arrangiarsi in qualsiasi modo per emergere (compreso la copiatura e lo sfruttamento della pietà dei docenti). Tutto questo però abbiamo cercato di farlo senza offenderli, senza opprimerli, senza ferirli. Non sempre ci siamo riusciti: siamo stati qualche volta anche minacciati. Abbiamo anche dovuto rifiutare il rinnovo di iscrizione o bloccare – con opportuni regolamenti – il loro accesso ai gradi superiori dell’offerta formativa universitaria.
Non è stato facile e ancora stiamo combattendo questa battaglia. Una battagli che è innanzitutto con noi stessi, per reprimere il nostro egoismo, per saper discernere cosa si può imporre a questi ragazzi e cosa invece del loro bagaglio ‘ancestrale’ bisogna sviluppare.
Anche noi abbiamo imparato molto. Ad esempio il piacere di stare insieme, di festeggiare che gli africani hanno o l’attaccamento alle loro tradizioni tribali. Ricordo con piacere i racconti che mi faceva Severino: come andava con suo padre e gli zii a caccia nella savana per diversi giorni e notti. Severino era congolese, figlio di un maestro elementare, ed è morto di AIDS dopo che era stato infettato molto probabilmente da una trasfusione di sangue a Kinshasa resasi necessaria in seguito ad un incidente d’auto. Di lui ricordo gli occhi tristi e il suo impegno nello studio: presentava le esercitazioni scritte in un francese corretto e in lettere che sembravano stampate.
Ma gli africani che frequentano la Facoltà non solo gli unici studenti, abbiamo sudamericani, asiatici ed soprattutto studenti dai paesi europei ex comunisti e da alcune repubbliche ex sovietiche. Questi ultimi hanno una buona preparazione scolastica e spesso anche universitaria, perché vengono aiutati solo per studi di specializzazione. Sono molto utili agli africani come termine di confronto ed anche come modelli. Ricordo con commozione alcune ragazze che aiutavano ‘maternamente’ durante un’esercitazione un nigeriano che di economia politica sapeva proprio poco e se ne vergognava !
In conclusione direi che la mia esperienza (che ora è la “nostra” di un piccolo gruppo di docenti) mi ha portato ad essere impegnato e severo ( crudele ?) con questi ragazzi. Impegnato nell’aiutarli a superare lo shock dei primi tempi di arrivo e dei primi semestri di studio, ma successivamente di proporre loro seriamente modelli accademici ‘occidentali’. Come la puntualità, l’impegno nello studio, il rispetto della metodologia scientifica. All’inizio ricordo che sotto esami le mamme, e i parenti prossimi in genere, “morivano” così spesso, e non consentivano agli studenti di rispettare le scadenze !
Restano molti problemi, e come potrebbe essere diversamente ?
Il primo è quello del ritorno nel Paese d’origine una volta terminati gli studi. Per questo finanziamo (o meglio facciamo finanziare) solo studenti che vengono presentati da organizzazioni locali (come le diocesi) che si impegnano a dare loro un posto di lavoro. Perché il non ritorno è causato
qualche volta anche dall’impossibilità di trovare nel Paese d’origine un posto di lavoro proporzionato alla specializzazione culturale acquisita in Europa.
Il secondo è la corruzione ed il clientelismo che esiste nei loro Paesi a tutti i livelli. Noi italiani non abbiamo una buona fama internazionale, ma non c’è paragone con la situazione dell’Africa subsahariana ! Chi ha lavorato laggiù lo sa bene. I ragazzi africani lo sanno e ci chiedono spesso cosa possono fare per contrastarla. La nostra risposta a tutta prima è evidentemente quella di non entrare, mai, in questi giochi.
Il terzo punctum dolens è la loro mentalità diffusa che tutti i loro problemi nazionali sono stati causati dal colonialismo. E che quindi i paesi sviluppati devono aiutarli. Non è qui il luogo per chiarire questo punto: dirò che molti dei loro problemi non dipendono dal colonialismo, bensì anche dalla loro storia pregressa, dall’inurbamento, dalla globalizzazione, ecc. Ne segue che i futuri leader devono acquisire una mentalità imprenditoriale, d’iniziativa, di responsabilizzazione individuale e collettiva.
A proposito di questo ultimo punto. Il nostro sviluppo occidentale, spesso solo economico, inquinante, predatorio, disumano insomma, non può essere una meta auspicabile per i paesi che vogliono emergere, emergere dalla mortalità infantile, dalle malattie endemiche, dall’ignoranza ecc. Purtroppo la Cina (attualmente attivissima in Africa) ha imboccata la nostra strada ! Forse le future generazioni africane – aiutate dal nostro senso critico e dal riconoscimento delle nostre colpe – non faranno i nostri stessi errori. Almeno non tutti.
Vorrei concludere confessando il mio metodo puntuale per superare le difficoltà di questo lavoro (che devo svolgere accanto a quello accademico). Mi basta guardare una fotografia di un bambino africano sorridente per essere rincuorato e per credere che quello che stiamo facendo ora in Italia aumenterà prossimamente il numero di questi bambini felici.
Non siete d’accordo anche voi che i bimbi africani sono i più belli del mondo ?
Intervento di Fabrizio Molina
Presidente della ONLUS “NESSUN LUOGO E’ LONTANO”
Occuparsi oggi di cooperazione internazionale, è atto di grande coraggio. In un quadro europeo di disimpegno rispetto ai già esigui finanziamenti del passato, l’Italia primeggia in un definanziamento poco idoneo alla fama di Paese civile. Il giudizio è severo ma non radicale come lo sono lo svuotamento delle leggi di finanziamento alla cooperazione decentrata, alla cooperazione allo sviluppo e a fini umanitari.
Né si può immaginare che, in un periodo peraltro di crisi di sistema, possa bastare la mobilitazione di risorse private per rendere possibili e stabili missioni umanitarie nei Paesi destinatari.
Sottolineo questo perché credo che la cooperazione sia un segmento dell’ agire sociale esposto a pesanti rischi di soffocamento e che un simile atteggiamento possa avere ricadute dirette e gravi su questioni delicatissime come le migrazioni interne ed esterne soprattutto nel e dal continente africano.
Occorre, a mio avviso, che il mondo sociale apra una grande riflessione su questi temi; una riflessione che non riguarda solo le ONLUS e le ONG che si occupano di interventi umanitari all’ estero, ma tutto il sociale nelle sue varie denominazioni, nella convinzione che la precarizzazione ulteriore della cooperazione internazionale sia, per motivi che non possiamo qui esaminare, un indicatore ed una leva che ha ripercussioni tout – court non solo sul versante umanitario ma sugli assetti geopolitica e dunque su temi “ definitivi” come la pace e la guerra.
Occorre poi anche valutare opportunità, tempi e modi della ricostituzione di una opinione pubblica che faccia pressione sugli Stati e sugli organismi internazionali perché escano almeno in parte da tentazioni e pratiche di ripiegamento in se stessi e colgano l’ importanza della leva dello sviluppo e della cooperazione anche in funzione del raffreddamento di conflitti latenti.
Una delle obiezioni che si sentono fare rispetto all’ esigenza di tornare a “ fare politica”, si sostanzia nella presunta irrilevanza della protesta locale in una dimensione ormai planetaria delle scelte. Non è detto che sia così, non sempre, non necessariamente. Le primavere arabe, gli indignati di Madrid e di New York dicono un’ altra cosa.
Quelli fatti son tutti accenni, né in questa sede si può fare di più; mi preme sottolineare la sensazione che ci sia, anche sui nostri temi, un mondo da ricostruire e per quanto poche siano le certezze che abbiamo, sappiamo bene che senza impegno e senza speranza nessuna rinascita è possibile.
In questo quadro si inseriscono le vicende individuali e associative, dunque anche quella di ECCOMI. Essa non può essere in alcun modo considerata una iniziativa di nicchia realizzata da una associazione, quanto piuttosto una esperienza prototipale che inserendosi in controtendenza rispetto al calare della sensibilità diffusa negli Stati e in Italia in particolare, assume un rilievo che non si può nascondere.
Per quel che ho capito, ECCOMI rappresenta l’ impegno concreto e ufficiale voluto dal MASCI nei confronti della cooperazione internazionale. Per chi come me conosce la cultura profonda del mondo scout, è improponibile l’ equazione MASCI = ECCOMI; so bene come lo scoutismo sia una realtà visceralmente legata all’ autonomia di ogni propria componente; ma è anche vero però che si tratta di una “ autonomia nell’ appartenenza”, non una federazione ma una confederazione, se proprio vogliamo dire.
Mi intrattengo con qualche parola su questa geografia dello stare insieme tipica dello scoutismo, perché solo così è possibile capire quale siano ( e perché siano così ), le proposte AGESCI per l’ educazione dei giovani, del MASCI per gli adulti, di Eccomi per la cooperazione internazionale. Solo partendo dall’ originalissima colla che unisce nella libertà tutte le membra dello scoutismo, si potrà cogliere il senso profondo del suo agire nella storia e nel mondo.
A proposito di ECCOMI, forse la creatura più recente, questo “ come “ e “ questo “ perchè”, risultano determinanti. Per quel che so Eccomi è una realtà giovane ma già piuttosto impegnata, portata a cucire un rapporto effettivo tra lo scoutismo “ di qua” e gli interventi da fare “ di là”. E non si creda che sia sempre facile: il MASCI, che è in qualche modo la cellula madre, è fatto di gente austera e pretenziosa, che si mobilita per raccogliere e finalizzare risorse ma che vuole sapere molto bene come esse vengano gestite, quali modalità e parametri di intervento vengano applicati, che tipo di riconoscimento di parità si persegua tra chi aiuta e chi è aiutato. Che progetto di parziale o completa emancipazione si riesca a stabilire. E questo per una profonda abitudine all’ uso attento e sobrio delle risorse e alla responsabilità sempre e comunque.
Questo approccio mi pare estremamente convincente e segna la trasposizione su un terreno nuovo per lo scoutismo di una particolare antropologia che è proprio quella scout; un modo di “fare” strettamente legato ad un modo di “essere”.
Detto ciò, voglio segnalare che anche un modo positivo se portato alle estreme conseguenze e su altri terreni, può rappresentare un problema. Vediamo di spiegarci meglio. Dai documenti e dalle relazioni che ho avuto modo di vedere relativi all’ operato di ECCOMI, ho derivato le valutazioni più sopra riportate. Da alcuni dei discorsi e valutazioni che sento fare, mi pare che si tenda a problematicizzare approcci in modo talora ideologico. Ci si interroga se, nei comportamenti e nell’ azione di tutti i giorni, possano esserci nelle modalità prescelte tracce sparse di neocolonialismo involontario, una inconscia idea di superiorità dell’ agire occidentale nei confronti degli usi e costumi locali, una idea sempre rinascente di voler aiutare ma alle nostre condizioni.
Gli esempi e le fattispecie che sento avanzare a supporto di questi dubbi, mi sembrano malposti. Se, ad esempio, gli operatori constatano che, per antica abitudine, i ragazzi del luogo e del campo mangiano per terra in condizioni igieniche precarie, non credo sia violento e prevaricante munire il campo di tavoli e sedie. Il rispetto per la sostanza di una cultura non si realizza necessariamente soggiacendo ad una forma. Se portassimo alle estreme conseguenze certo ragionamento, ci troveremmo a chiederci se siano democratiche le vaccinazioni, le zanzariere, perfino il contrasto al- le abitudini tribali più odiose e antiche. Non tutto ciò che è antico e strutturale ad una certa cultura è bene, non tutti i cambiamenti, opportunamente proposti, sono un male.
So che i palati più fini troveranno urticanti e rozze queste parole, ma se ho citato l’essenza dello scoutismo, l’ho fatto perché credo che la migliore forma di autoassicurazione sulle intenzioni di una struttura come Eccomi, siano nel dna della sua storia e nel ceppo in cui essa è innestata. Certo, occorre sempre vigilare su noi stessi, ma gli echi di certo terzomondismo non portano in alcun luogo. Io mi sono fatto l’ idea che l’ esperienza di ECCOMI sia valida, che come tutto ciò che si fa debba essere sottoposto a vaglio critico ma sereno, costruttivo e non paralizzante. Esiste una distanza tra giustezza dei fini e congruità dei mezzi, tra l’ essenza e la forma, tra il rispetto e il cambiamento, che ognuno può misurare. Purchè lo si faccia sul campo o comunque con spirito libero, scendendo da torri eburnee dalle quali si guarda in basso col sopracciglio alzato.